
Recensione di Massimo Rossi:
“Case gescal” di Stefano Santi obbliga a un supplemento di ” soggiorno visivo”. La materia è preservata. Fedele, diremmo. Il soggetto pure. Ma urge una risposta per quella solita geometria che, d’un tratto, sembra divenire contestativa. I due piani superiore e inferiore rimano con leggere differenze tonali giocate sulla scala dei grigi. Vacilla, forse, la “divina indifferenza” santiana che sembra farsi tensione attraverso il caldo del mattone del muro laterale degli edifici con le loro più illuminate facciate meridionali. Il cielo è la strada e viceversa. In mezzo stanno le storie umane che hanno scimmiottato la tradizione curtense e il dato naturale fino alla noia. Forse ci siamo. O forse no. Stefano Santi è un ermetico. Ci risponda se sia, il suo, un gioco purovisibilista o se vi sia anche un soggetto sentimentale. Ci spieghi se sia più l’ironia o la verità senza filtri a parlare di noi e delle nostre storture. Se vi sia un qualche mistero lì lì per essere rivelato o se ciò che annusiamo attorno alle sue tele sia una critica feroce e definitiva. Tuttavia, Stefano Santi, sta’ fermo. Non s’affatichi per noi, maestro. Continui a far la sua parte, così, infischiandosene altamente di noi qui dall’altro lato della carreggiata.